Era impensabile solo fino ad una decina d’anni fa, forse anche meno, affidare il ricordo, la memorizzazione e quindi l’essenza stessa del marketing ad un solo marchio senza logotipo.

A meno che non si stesse parlando della Ferrari, dove il cavallino rampante – il simbolo più conosciuto al mondo – riconduce ai bolidi italiani, tutti i brand internazionali e riconosciuti univano saldamente il simbolo al nome. Ma il modo di comunicare è cambiato molto rapidamente, sia come strumenti (il primo iPhone non ha ancora compiuto 10 anni!), sia come media, basti pensare a Facebook, di soli due anni più “vecchio”, e al suo straordinario modo di diffondere messaggi e immagini.

Questa evoluzione ha imposto alle aziende un cambiamento radicale nel proporre il proprio brand ai consumatori: sempre più marchio, quindi immagine sintetica ed attraente, sempre meno logotipo, scritta posta ai margini o addirittura eliminata.

Uno dei primi fu Nike, affidando la comunicazione al solo “baffo”, uno degli ultimi è stato Starbucks: la catena di caffetterie e bar mette sui bicchieri take away solo la Sirena con il nome del cliente.

I vantaggi di questa operazione sono diversi:

rinnovare la propria immagine, proporsi, soprattutto ai nuovi potenziali clienti, in modo più fresco e coinvolgente.

un approccio più personale: infatti un’icona costruita con abilità consente una lettura più creativa e personale rispetto ad una scritta; è la celebrazione dell’individualismo.

un uso più pratico ed una maggiore leggibilità, anche sui nuovi strumenti di comunicazione, sempre più mobili.

Naturalmente stiamo parlando di brand internazionali con prodotti di largo consumo, da lungo tempo presenti sul mercato. C’è da dire infatti che il debranding non è per tutti: il marchio deve essere maturo per questo passo e al contempo flessibile. Un brand “monolitico”, molto istituzionale e con una forte spinta verso il corporate potrebbe creare invece un effetto contrario facendo perdere di credibilità all’azienda e di conseguenza quote di mercato.

Ma se l’evoluzione che c’è stata negli ultimi 10/15 anni ci sarà anche nei prossimi 2/3 lustri, è possibile pensare ad una operazione di restyling anche per brand meno conosciuti e magari solo in alcuni settori della comunicazione/promozione più legati alla personalizzazione del messaggio: vedi la campagna della Coca Cola in cui il nome della società era sostituito da parole più evocative e da nomi propri degli acquirenti . Oppure la campagna di Nutella dove al posto del logotipo compare, con gli stessi caratteri e colori, il nome del fruitore della mitica cioccolata. Una strategia che, soprattutto nei social con la loro potenzialità virale, ha dato risultati eccellenti, seppur ispirata dalla strategia della nota bevanda americana.

IL DEBRANDING E LO STORY TELLING PER LA CONTENT STRATEGY

C’è una particolare forma di debranding che può interessare tutte le aziende.

I nuovi media hanno di fatto sminuito l’impatto della pubblicità, e i marchi sono alla ricerca di nuovi modi per attirare di nuovo consumatori. Il più efficace e più indicato è quello di pubblicare storie che sono a tutti gli effetti articoli giornalistici. La strategia chiave dei contenuti di marca o di “native advertising“ è quello di nascondere l’imperativo commerciale , e come abbiamo visto anche il marchio, in modo che i lettori pensino di consumare contenuti di un giornale o di una rivista. Questo rende le marche più affidabili, familiari e indispensabili . I brand hanno iniziato ad adottare tattiche più sottili: attraverso la native advertising, le marche raccontano storie su diverse piattaforme in un modo che è quasi indistinguibile dalle storie che i lettori già consumano. Abbinando il messaggio alla piattaforma, le aziende possono fidelizzare i clienti fedeli e, se bravi, rendere il loro contenuto virale.

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Fonti:

Grimes, T. (2013, July). What the Share a Coke campaign can teach other brands. The Guardian.

http://wwd.com/retail-news/marketing-consumer-behavior/think-tank-anjee-solanki-retail-branding-10305271/